REGIME DEGLI IMPATRIATI
Inserito da Hooman Banihashemi
REGIME DEGLI IMPATRIATI
L’Interpello presentato dal nostro Studio all’Agenzia delle Entrate ha chiarito degli aspetti rilevanti per molti contribuenti (risposta interpello 223/2022)
Tale Interpello illustrato ed analizzato in questi mesi dalle principali testate giornalistiche fiscali e tributarie, nonché da numerosi studi professionali prestigiosi del paese, è stato considerato da molti per la sua complessità come “Quesito Protagonista” all’interno del regime degli impatriati.
Vediamo di seguito che cos’è il regime degli impatriati e successivamente analizziamo la risposta a tale interpello n.223/2022 dell’Agenzia delle Entrate.
Cosa è IL REGIME DEGLI IMPATRIATI:
E’ un regime di tassazione agevolata per lavoratori (dipendenti o autonomi) che hanno trasferito o che trasferiscono la loro residenza in Italia.
Sono tre le condizioni richieste:
- il lavoratore non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il trasferimento;
- il lavoratore si impegna a risiedervi per almeno due anni;
- l’attività lavorativa sia svolta prevalentemente nel territorio italiano.
Per i contribuenti che si trovano in tali condizioni, nel periodo d’imposta in cui la residenza viene trasferita e nei successivi quattro (per un totale di 5 anni), solo il 30% del reddito di lavoro dipendente (o a esso assimilato) e di lavoro autonomo prodotto in Italia viene tassato ai fini Irpef, pertanto il reddito in questione viene abbattuto del 70%. L’abbattimento è del 90% se la residenza sia trasferita in una delle seguenti regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia.
I benefici del regime degli impatriati si applicano per ulteriori cinque anni ai lavoratori con almeno un figlio minorenne o a carico e a quelli che diventano proprietari di almeno un immobile residenziale in Italia dopo il trasferimento o nei 12 mesi precedenti. Per il periodo di prolungamento (i secondi 5 anni), i redditi agevolati concorrono alla formazione dell’imponibile per il 50% del loro ammontare (il reddito viene abbattuto del 50%) ovvero per il 10% in caso di lavoratori con almeno tre figli minorenni o a carico, dove il reddito viene abbattuto del 90%.
Nel regime degli impatriati fanno eccezione gli sportivi professionisti, il cui reddito è detassato sempre nella misura del 50% e sempreché versino un contributo pari allo 0,5% dell’imponibile, destinato al potenziamento dei settori giovanili.
Risposta INTERPELLO sul REGIME DEGLI IMPATRIATI
Di seguito la sintesi dei punti rilevanti dell’Interpello presentato dal nostro Studio all’Agenzia delle Entrate sul Regime degli Impatriati (n.223/2022).
- Possono fruire dell’agevolazione anche i lavoratori in smart-working in Italia, che prestano la loro attività per un datore di lavoro estero;
- Deve essere ravvisato un collegamento tra il rientro in Italia e lo svolgimento dell’attività lavorativa;
- Lo svolgimento contemporaneo di un secondo lavoro all’estero non va ad inficiare l’agevolazione qualora il lavoratore assicuri la prevalenza dell’attività lavorativa svolta sul territorio italiano e mantenendo la propria residenza in Italia;
- L’agevolazione fiscale si applica ai soli redditi prodotti sul territorio italiano, anche se remunerati da un soggetto estero; pertanto l’esenzione non spetta per i redditi derivanti dal lavoro prestato fuori dai confini italiani;
- Qualora l’attività lavorativa termini prima del biennio per cause non imputabili al lavoratore, quest’ultimo non perde il beneficio, purchè non trasferisca la residenza fuori dall’Italia prima del biennio;
- Non si perde il beneficio se il lavoratore cambia il datore di lavoro durante il periodo di fruizione dell’agevolazione;
- Mancato riconoscimento del credito d’imposta (per tasse pagate all’estero) tramite detrazione dell’imposta assolta all’estero dal tributo dovuto nello Stato di residenza (l’argomento più spinoso all’interno dell’Interpello);
In relazione al reddito prodotto in Italia e soggetto all’agevolazione non spetta il credito di imposta qualora tale reddito sia stato prima assoggettato ad imposta estera, in quanto L’Agenzia ritiene che in base all’art. 15 della convenzione tra l’Italia e gli Usa contro la doppia imposizione (in genere tutte le convenzioni modello Ocse), i redditi sono imponibili e quindi soggetti a tassazione esclusivamente nel paese in cui viene svolta l’attività e pertanto una loro tassazione estera non fa nascere il diritto di conguagliarle in Italia mediante la detrazione d’imposta.
Nello smart working, la definizione del reddito (estero o italiano) e del luogo di lavoro, sono il nodo centrale per dirimere la diatriba sul credito d’imposta. Il luogo di lavoro che per l’Agenzia è l’Italia, in quanto l’attività è prestata sul territorio italiano, ha come conseguenza diretta la classificazione del relativo reddito come italiano e non estero, facendo si che non ci sia il diritto al credito d’imposta per tasse pagate all’estero. Mentre, nella realtà dei fatti, tenendo conto dell’evoluzione del concetto stesso del luogo di lavoro dalla pandemia Covid-19 in poi, quando l’attività viene svolta in smart-working per un datore di lavoro disinteressato al luogo fisico in cui si trova il lavoratore, il datore può ritenersi legittimato, in base ad un contratto di lavoro estero (del suo paese) ed ad una busta paga estera, per prestazioni che riguardano il mercato domestico del datore del lavoro a ritenere che trattasi di reddito statunitense e ad applicare le ritenute fiscali. Questa anomalia, di cui si assiste ad una sua amplificazione dovuta dalla possibilità di poter fruire del regime degli impatriati anche per i lavoratori in smart working per datori esteri, quando tale lavoro agile non è stato ancora ben disciplinato ne in Italia, ne in molti paesi esteri, e ne tantomeno nelle convenzioni contro la doppia imposizione, porta, secondo l’interpretazione data nella risposta all’interpello 223/2022, ad un pericolo di una duplicazione del prelievo fiscale nonostante la presenza delle convenzioni contro la doppia imposizione.
A parere dello scrivente, tale interpretazione dell’Agenzia risulta non convincente ed errata nonchè in contrapposizione con i principi della stessa convenzione sulla quale si è basata l’Agenzia per dare il proprio parere.
L’Agenzia delle Entrate ha già affrontato la questione oltre che nella risposta all’Interpello 223/2022 anche nella propria Circolare 33/E del 28 dicembre 2020, nonchè nella circolare 17/E del 2017, che sembrano divergere con la risposta all'Interpello.
Nella Circolare 33/E del 28 dicembre 2020 paragrafo 6) “modalità di fruizione dell’agevolazione” , nonché nella Circolare 17/E del 2017, Parte II, paragrafo 4.2.1, l’Agenzia invece afferma che “Per beneficiare del regime agevolativo in esame, il lavoratore deve presentare una richiesta scritta al datore di lavoro, il quale applica il beneficio dal periodo di paga successivo alla richiesta e, in sede di conguaglio, dalla data dell’assunzione, mediante applicazione delle ritenute sull’imponibile ridotto alla percentuale di reddito tassabile. Nelle ipotesi in cui il datore di lavoro non abbia potuto riconoscere l’agevolazione, il contribuente può fruirne, in presenza dei requisiti previsti dalla legge, direttamente nella dichiarazione dei redditi.”
Tali circolari fanno riferimento al “datore di lavoro” in modo generico senza distinguere se trattasi di datore di lavoro italiano o estero. Pertanto si ritiene che possa essere applicato anche quando il datore di lavoro è estero.
Non solo, ma le circolari di cui sopra permettono in sede di dichiarazione dei redditi di conguagliare le imposte già trattenute in busta paga in misura superiore al dovuto. Qualora per l’Agenzia il riferimento (non indicato in modo chiaro) siano redditi percepiti da datori di lavoro italiani, allora per il principio di non discriminazione tra lavoratori bisogna permettere anche ai lavoratori che hanno il datore di lavoro estero di poter procedere in tal senso qualora il proprio datore di lavoro “non abbia potuto riconoscere l’agevolazione”. Una diversa ipotesi avrebbe un risultato di iniquità, e causerebbe una discriminazione tra lavoratori, contro i principi della costituzione italiana e dei diritti fondamentali comunitari.
Si ritiene che le interpretazioni si debbano fondare sulle realtà operative quotidiane e non in modo astratto su realtà semplificate. Pertanto anche se l’articolo 15 della convenzione sopra citata definisce in modo chiaro il luogo di tassazione (in questo caso Italia), nella realtà dei fatti, può capitare, per infiniti motivi e/o circostanze, tra cui la condizione prevista dall’articolo 1 paragrafo 2 della stessa convenzione, o semplicemente per mero errore, per diversa interpretazione dei soggetti esteri (datore di lavoro/consulente del datore di lavoro/fisco inglese) o semplicemente che il datore di lavoro “non abbia potuto riconoscere l’agevolazione” (come riportato nelle circolari precedentemente menzionate), che sul reddito di provenienza estera ci siano delle trattenute fiscali alla fonte, nonostante le disposizioni dell’art. 15 della Convenzione contro la doppia imposizione tra l’Italia e gli Stati Uniti, e che tale reddito venga tassato anche alla fonte (paese estero). Di conseguenza e non a caso è previsto dall’articolo 1 paragrafo 3 della Convenzione la possibilità di evitare la doppia imposizione usufruendo del credito d’imposta per l’imposizione subita nel paese estero (in questo caso gli Usa). Tale articolo recita: “le disposizioni dell’art. 2 non pregiudicano i benefici concessi da uno stato contraente ai sensi … degli articoli 23 (eliminazione della doppia imposizione) e 24 (non discriminazione).
L’ art. 23 rappresenta quindi la vera essenza della convenzione in quanto permette l’eliminazione di un pregiudizio derivante da una doppia imposizione mediante l’utilizzo del credito di imposta.
Tale posizione dell’Agenzia desta delle perplessità poiché in conflitto con i principi essenziali sui quali si basa la natura stessa delle convenzioni contro la doppia imposizione, dove il fine sostanziale è nell’eliminazione della duplicazione del prelievo fiscale.
Quindi anche se l’art. 15 definisce in questo caso l’Italia come paese di imposizione, cosa succede al contribuente che per volontà non sua si trova ad aver pagato le imposte all’estero, o ad aver subito delle trattenute?
L’Agenzia nell’interpello fa riferimento esclusivamente al paragrafo 1 dell’art.15 della convenzione che recita : “i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato”.
L’art. 15 della convenzione preso come riferimento dall’Agenzia richiama due variabili:
1) Luogo di residenza
2) Luogo dell’attività svolta
Anche il paragrafo 2 dello stesso articolo 15 (non menzionato dall’Agenzia) fa riferimento ai sopramenzionati due variabili (luogo di residenza e luogo dell’attività svolta) recitando che “Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente (Italia) riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente (Usa) sono imponibili soltanto nel primo Stato (Italia) se … (b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro (Italiano) che non è residente dell’altro Stato”.
Cosa significa il luogo dell’attività svolta?
Secondo l’interpretazione desumibile dall’Interpello in questione (n.223/2022), per l’Agenzia il luogo dell’attività svolta coincide con il territorio dove è fisicamente presente il contribuente mentre svolge le sue mansioni lavorative.
A parere dello scrivente, nonostante l’attività lavorativa sia svolta in un determinato territorio, il luogo della prestazione può essere diverso tenendo in considerazione i cambiamenti introdotti nelle modalità lavorative intervenute durante la pandemia da Covid 19, tra cui il lavoro in smart working. Tale luogo non può più coincidere con il territorio in cui è presente il lavoratore e da dove svolge la sua attività, ma corrisponde con l’ambiente dove tale attività viene usufruita. Nel caso in esame il datore di lavoro estero (la clinica di psichiatria) e i clienti finali (pazienti) si trovano fisicamente negli Usa, mentre il medico psichiatra (lavoratore) dipendente della clinica e medico curante dei pazienti si trova fisicamente in Italia. Il medico attraverso lo strumento dello smart working si connette con il paziente nel luogo di lavoro (portale della clinica americana). Pertanto anche se il lavoro viene svolto sul territorio italiano (condizione per poter usufruire del regime degli impatriati), la prestazione è effettuata all’estero, nei confronti di pazienti americani (condizione per poter beneficiare del credito d’imposta per imposte pagate all’estero). Ciò è vero per la maggior parte dei lavori in Smart Working, dove vi è un datore di lavoro estero, con il lavoratore che è anche condizionato dall’orario dell’ambiente estero. Nel caso prese in esame, il medico psichiatra per prestare la propria attività lavorativa dovrà basarsi sul fuso orario del luogo in cui sono presenti i pazienti, e quindi dovrà basarsi sul luogo in cui erogherà il proprio lavoro.
Pertanto anche se il lavoro viene svolto sul territorio italiano (condizione per poter usufruire del regime degli impatriati), la prestazione è effettuata all’estero, nei confronti di pazienti americani (condizione per poter beneficiare del credito d’imposta per imposte pagate all’estero). Pertanto ci troviamo di fronte ad un reddito estero ma maturato in Italia.
<<Nel nostro ordinamento, non si rinviene una norma specifica che definisca espressamente che cosa s’intenda per luogo di lavoro. Da un po’ di anni, però, abbiamo una norma nel nostro ordinamento che sembra definire il luogo di lavoro ed è quella contenuta nell’art. 62, comma 1, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 che, fornisce una definizione di luoghi di lavoro come di luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro.
Tale norma è la prima che sembra dare una definizione legislativa di luogo di lavoro, ma,
nonostante ciò, tale statuizione non ha una portata generale, utilizzabile per qualsiasi rap-
porto di lavoro e in qualsiasi situazione.>> (Monica Napolitano – Il luogo della prestazione lavorativa – Annali della facoltà Giuridica dell’università di Camerino n.1/2012).
Il caso di Smart Working è esattamente quel “qualsiasi rapporto di lavoro” dove non viene definito dal legislatore.
Inoltre nel rapporto di lavoro subordinato viene previsto l’obbligo per il datore di lavoro di
fornire al lavoratore l’informazione inerente il luogo o i luoghi di lavoro (art. 1, d.lgs. 26 maggio 1997, n. 152, di attuazione della direttiva europea 14 ottobre 1991, n. 533, relativa
all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro).
Tale norma incontra due limiti nell’ambito della Convenzione contro la doppia imposizione e del regime degli impatriati. 1) L’obbligo è previsto per il datore di lavoro italiano e non per quelli esteri (come ad esempio quelli americani); 2) Qualora venga definito come luogo di lavoro l’attività in Smart Working, non viene risolta la questione di definire il paese di riferimento.
Anche la Direttiva UE 2019/1152 all’art. 21 dispone che entro il 1 agosto 2022 gli stati membri adottino misure necessarie per conformarsi alla direttiva medesima, con obblighi informativi a carico del datore del lavoro, tra cui l’obbligo di comunicare il luogo del lavoro. Attualmente non tutti gli stati hanno recepito ancora tale direttiva, e non tutti i datori di lavoro sono stati adempienti. Nonostante ciò i limiti su esposti rimangono. Ovvero 1) l’obbligo è per i datori comunitari e non per quelli esteri extra comunitari; 2) Qualora venga definito come luogo di lavoro l’attività in Smart Working, non viene risolta la questione di definire il paese di riferimento.
Pertanto è possibile concludere, secondo lo scrivente, che trattasi di reddito estero ma maturato in Italia in conseguenza della situazione ibrida che porta con se il lavoro in smart working con datore di lavoro estero disinteressato al mercato italiano. Il contribuente dovrebbe poter beneficiare del credito di imposta per trattenute fiscali subite all’estero.
Tornando al secondo paragrafo dell’art. 15 della Convenzione contro la doppia imposizione, nella parte in cui cita che “le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente (Italia) riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente (Usa) sono imponibili soltanto nel primo Stato (Italia) se … (b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro (Italiano) che non è residente dell’altro Stato”, e tenendo conto che se un’affermazione è vera, sarà vera anche la negazione del suo contrario, allora ci dobbiamo domandare se possiamo affermare che se le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro (Usa) che è residente dell’altro Stato (Usa), allora le imposte non sono dovute solamente nel primo stato (Italia).
Ed ecco che, alla conclusione di tutto, il datore di lavoro estero può sentirsi obbligato ad applicare delle ritenute alla fonte (pagamento delle imposte) sul reddito del lavoratore che per il principio della non discriminazione tra i lavoratori, per il principio della capacità contributiva previsto dalla costituzione, e i principi fondamentali della convenzione contro la doppia imposizione, bisogna riconoscergli il diritto di procedere con la detrazione delle imposte pagate all’estero mediante l’utilizzo del credito d’imposta.
Ritenendo che il Regime degli Impatriati necessita ancora di numerosi chiarimenti, mi auspico nuovi interventi da parte dell’Agenzia o del Ministero per fornire risposte che mettano i contribuenti nelle condizioni di maggior certezza.
Prof. Dr. Hooman Banihashemi